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L’illusione dell’eternità digitale

  • Immagine del redattore: Chiara Franzoni
    Chiara Franzoni
  • 23 set
  • Tempo di lettura: 3 min

Qualche giorno fa ho ascoltato una trasmissione radiofonica che indagava le possibili conseguenze dello sviluppo tecnologico, con particolare riferimento alla cosiddetta “intelligenza artificiale”. Osservando la moltitudine di video che popolano le piattaforme social, mi colpisce come la presenza di quelli che molti chiamano “umanoidi” sia sempre più diffusa. Io preferisco continuare a definirli “robot”: credo sia essenziale mantenere un giusto distacco critico ed evitare di attribuire qualità umane a ciò che umano non è.

Uno dei temi trattati nella trasmissione riguardava i profili social di persone ormai decedute, che restano attivi online anche a distanza di anni. Si ipotizza — e in parte già si sperimenta — di utilizzare i contenuti lasciati da queste persone per alimentare programmi capaci di simulare interazioni, così da permettere conversazioni con una loro “replica digitale”. Una possibilità che, pur potendo offrire a qualcuno un’apparente consolazione, apre questioni etiche e morali non trascurabili. Il rischio è che, invece di accompagnare il naturale processo di separazione e di elaborazione del lutto, si finisca per alimentare illusioni che conducono a un progressivo smarrimento di sé.

Ho riflettuto anche sul futuro della cura nella vecchiaia. Mi chiedo quale posto avranno, in un domani sempre più tecnologico, l’umanità e l’empatia incarnata. Potremo ancora affidarci a persone in carne ed ossa, capaci di accoglierci con sensibilità, o saremo consegnati alle attenzioni di robot modellati sui volti dei nostri cari? E come potrà mai una macchina riconoscere i segni della sofferenza quando la parola viene meno? In che modo potrà accogliere un dolore che non conosce nel proprio cuore?

Tutto questo solleva una domanda inevitabile: fino a che punto ci spingeremo? Giungeremo — o forse ci siamo già giunti — a costruire copie artificiali dei nostri partner, vivi o defunti, proiettando su di esse le nostre aspettative e i nostri desideri di come avremmo voluto che fossero? E quanto a lungo l’etica continuerà a essere spodestata, da una “normalità” che normale non è?

Non a caso, questi interrogativi trovano posto anche in opere distopiche come la serie Netflix “Black Mirror”, che a mio avviso rappresenta un vero avvertimento su un possibile percorso senza ritorno. Fin dal primo episodio appare chiaro come il rifiuto di accettare la morte e il tentativo di prolungare artificialmente la presenza dei propri cari, seppure spinti dal dolore, possano trasformarsi in una prigione senza via di uscita. Ciò che all’inizio sembra una conquista, una nuova libertà, si rivela presto alienazione e perdita di senso. Quanto siamo diventati dipendenti da queste illusioni che ci risparmiano il dolore del lutto? E quanto la paura della sofferenza ci impedisce di vivere fino in fondo il mistero della perdita, sostituendo l’autenticità del legame con il fragile conforto di un surrogato?

Il mio Maestro spirituale, Marco Ferrini fondatore del CSB (Centro Studi Bhaktivedanta) insegna che non tutto ciò che procura piacere è necessariamente un bene. Eppure, oggi, la nostra società tende spesso a confondere piacere e bene, affidandosi a soluzioni immediate che offrono sollievo, ma che nel tempo rischiano di svuotare la vita interiore. Non so se vedremo mai un’inversione di tendenza, ma lo auspico. Sarebbe necessario ritrovare lucidità e discernimento, per distinguere con chiarezza ciò che è reale da ciò che è illusorio, in un mondo che ci seduce con stimoli incessanti e promesse superficiali.

Recuperare la nostra essenza più autentica significa anche accettare il limite, imparare a dire addio e attraversare con coraggio la prova del lutto. Solo così possiamo custodire e coltivare relazioni vere, che nessuna immagine perfetta ma vuota potrà mai sostituire.

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